Potrebbe essere intitolata "Omaggio all'Appennino" questa mostra di Virginio Ridolfi, se non risultasse invece una evocazione in termini apocalittici; un omaggio quindi, se lo è, esaltato ed in certi momenti persino aberrato, che rievoca bolgie dantesche, tanto crescono a dismisura questi ciclopi che non sono più neppure "calanchi" appenninici, ma "orridi", "valli della morte", gole di terra solidificata, come pietrificata,da discesa negli inferi.  Territori che, già noti, sono riproposti sulla scorta di una memoria che genera mostruose, terrificanti apparizioni, incredibili allucinazioni di sonni sacrificati o repressi in albe sulfuree.  .Zone dove la luce, pur comprimaria, sopprime i tagli dei contrasti luministici, dilagando ovunque con quella monotonia ossessiva che è residuo notturno nel trapasso in cui i fantasmi intravisti prendono forme d'irrealtà illividite, annichilite.

Calanchi di dura struttura incanalano precipizi che appaiono fuori del tempo, del mondo, della realtà, persino di un'umana percettività, usciti da un recupero di memoria che dilata le sembianze e non lascia campo ad alcuna ipotesi di umana dimensione .E' un dominio di natura solitaria ed ostile, còlta nel momento stesso in cui si nega alle esplorazioni con un esoso prezzo.

Virginio Ridolfi,cacciatore e perciò, per temperamento, migrante cercatore di prede, nelle immagini di questa natura, che in fondo ama, forse inconsciamente recupera anche il pedaggio della fatica che essa gli impone come prezzo delle esplorazioni; ed è, ritengo, nell'odio per il prezzo e nell'amore per l'esplorazione, durezza in sè ed orgoglio di conquista, che nel segreto del suo studio di pittore egli dilata in gigantesche sembianze quella natura che sembra andare perfino al di là dell'umano confronto.

La solitudine dilaga entro un gigantismo senza cieli, senza orizzonti, chiusa nelle gole, scivolante sui pendii e negli anfratti entro i quali sembra improbabile persino ogni risonanza.

Mi sovvengono alcuni versi di Gaetano Arcangeli, nei quali il poeta si rivolge all'Appennino ricordandone le dolcezze, le sere e le escursioni sentimentali, in una memoria di nostalgie e di struggenti sensazioni:

                                 "Poi ti frastuona il tempo della caccia

                                   con le tue accese crudeltà e manie

                                   ad accanirsi contro i tuoi silenzi....."

Arcangeli non amava la caccia, ne pativa gli effetti, anzi; ma per Ridolfi cacciatore i silenzi dell'Appennino sono duri, pietrosi come gli stessi calanchi di antica terra che egli immagina induriti da secoli di ostinate sfide agli interventi umani ed a quelli atmosferici secolari.  L'Appennino per lui è passione e fatica di una inesausta ricerca dell'ossessione di un bersaglio per un colpo da sparare, non priva di momenti di tregua durante i quali, insieme al suo ansito, gli sembra di avvertire il respiro ampio e possente di una natura che gli appare indomabile.

Questa ritengo sia la chiave per una lettura,prescindendo un pochino dalla qualità pittorica, dei quadri di Virginio Ridolfi.


Maggio 1973                                           

                                                                                                           MARCELLO  AZZOLINI

VIRGINIO RIDOLFI
 

GLI ULTIMI DIECI ANNI: 1973 - 1983


Ma poi accade, a partire da quel fatidico, intensissimo 1973 datato da Marcello Azzolini, un mutamento dapprima impercettibile, poi via via aperto, ad ali spiegate. Anzitutto i calanchi delle Marche del nord e della Romagna, o vicini alle zone etrusche di Umbria e Lazio, sembrano stendersi in una potenza terribile ma morbida, addolcita come carne, costruita con corpi di terra.

Impasti di colore denso, stesi con pennellate invisibili o plasmati con le dita, sono animati da mutamenti di luce pura, implacabile, cristallina, fino alle montagne estreme sull'orizzonte.

Terra, terra all'infinito, con ferite arcaiche, sedimenti, grumi: non fecondata dalla vegetazione, spoglia ma non arida, ricca della sua vitalissima forza plastica.

Come mappe preistoriche su mari o laghi o cascate altrettanto poderosi.

Ma dalla lontananza geologica al sentimento del presente il passo è brevissimo: bastano piccoli uomini, cani, gabbiani, barche, fagiani.

Allora entra la vita, da quel fatidico 1973, nelle immani visioni di Virginio Ridolfi, e se c'è un sentore di tempesta nel cielo, senti che s'allontana; o se è sereno, avverti una luce sempre più trasparente e lieve, quasi dissolta nel chiarore delle distanze. Sono spazi infiniti coi quali i piccoli uomini coesistono, dominati ma non sopraffatti. Via via il sentimento dominante è insomma la "contemplazione" dell'immensità della natura, e di questo coesistere nostro con lei.

Memorie del grande romanticismo tedesco - alla Caspar David Friedrich - si attenuano in una tensione meno vertiginosa, meno allucinata, tutto sommato più classica e controllata dalla ragione. Perché la suggestione formidabile del volare, del vedere dall'alto scendendo col paracadute, ha dato a questo artista il privilegio di catturare vastità di spazio altrimenti imprendibili, nelle dimensioni della profondità e della larghezza.

Credo che l'originalità più intensa dei quadri di Ridolfi stia proprio in questo suo doppio amore per il volo coraggioso e per la pittura: dall'alto si può dominare tutto, immagini di città e campagne, strade (generalmente al bivio) e filari di coltivazioni.

Oppure il mare, alla luce del crepuscolo, con aria di tempesta appena finita, e onde che si alzano e s'increspano come le frastagliature dei calanchi.

Un primordiale bisogno di esaltare la vita, con sapienza pittorica istintiva, talvolta anche un po' ingenua: ma tesa ad evocare stagioni esasperate o luoghi di piccole città, nell'enormità dello spazio e del tempo da scandire col "suono dell'ora".

L'infinito ameno delle docili colline di Recanati si è spostato più a nord, nella pittura di Ridolfi, e si è immerso in territori selvaggi fra terre e acque.

Poi alla fine, nell'ultima opera, è sprofondato nella forza terribile di un vulcano che butta fuori fuoco, come quel Vesuvio alla cui lava ha resistito, fiore pieghevole eppure tenace, solo la memorabile Ginestra.

Alla fine: per Virginio Ridolfi, nel dicembre 1983.


                                                                            Grazia Calegari

Sono passati venticinque anni dalla prematura scomparsa del pittore fanese Virginio Ridolfi (1922-1983), deceduto a causa di una neoplasia  polmonare  per la quale era stato operato un anno prima.

Il suo ricordo è ancora vivo in chi lo aveva conosciuto e apprezzato come uomo; i suoi quadri permettono ancora oggi di ammirarne le qualità di artista, mettendo in evidenza il suo mondo interiore, manifestato  appunto attraverso le sue opere realizzate nell’arco di venti anni.

Virginio Ridolfi si diplomò negli anni quaranta all’Istituto d’Arte “Apolloni “ di Fano, con due grandi maestri come Emilio Lazzaro e Fabio Tombari. Dal primo  apprese la capacità di miscelare i colori e dal secondo l’amore per quei poeti che più di altri hanno “cantato” le nostre terre (Giacomo Leopardi, Giosuè Carducci, Gaetano Arcangeli..). Le sue opere ci rivelano la sensazione di libertà di questo artista che, spirito indomito e prevalentemente solitario, appagava con la passione per la caccia che lo portava fin da piccolo, da solo o in compagnia dei suoi cani, a percorrere con tanta fatica e sudore dirupi e calanchi, che costituiscono il regno delle starne, affrontando una terra dove la natura è sovrana e proprio per la sua impervietà  rimasta incontaminata e immodificata fin dalle sue origini.

La terra  dei quadri di Ridolfi è  brulla, arida, resa così dal colore marrone dominante sul verde delle valli lontane all’orizzonte; il mare è un oceano difficilmente navigabile  che si infrange con le sue lunghe onde sul litorale frastagliato, fragoroso come lo scontro di due ciclopi (il mare e la terra appunto ) a cui l’uomo in alcuni dipinti assiste da lontano,  piccolo e inerme. Le crepe e i cretacci che scavano la terra sembrano paurosi anfratti, veri orridi da inferi, da dove chi ci entra difficilmente potrà uscirne. Per tali motivi questa terra così primitiva, bellissima ma inospitale per l’uomo, può essere visitata solamente volandoci sopra (come le sue starne o i suoi fagiani dipinti in alcune opere); ed ecco allora aprirsi sotto i nostri occhi un mondo fatto di rivi, cascate, canions di terra corrucciata che testimoniano le grandi difficoltà con cui questa natura si è formata al termine di veri e propri eventi sconquassanti e turbolenti, che hanno lasciato queste stupende ferite ormai cicatrizzate che caratterizzano la sua morfologia;   Ridolfi era tanto amante del volo e dell’avventura che,  appena diplomatosi,   allo scoppio della seconda guerra mondiale partì volontario nei paracadutisti della Folgore.

Nel corso del cammino pittorico di Ridolfi si assiste ad un mutamento graduale ma deciso, per cui  questa terra, dapprima così inospitale e paurosa diviene negli anni  più gentile, poetica, amica dell’uomo che può conviverci meglio addirittura lavorandola per trarre dei frutti che gli permetteranno la sussistenza.

Ecco dunque che le opere di Virginio  Ridolfi riproducono una similitudine evidente e chiara con lo stato d’animo dell’artista che, dopo aver trascorso periodi di conflitti interni ed esterni, raggiunge pian piano con la maturità uno stato d’animo di accettazione e maggior serenità interiore. I dirupi e gli orridi ostili nel tempo lascian spazio alle colline, ai laghi, alle cascate, ai rivi e a visioni paradisiache che culminano con poetici “monti azzurri”di leopardiana memoria; il gusto della contemplazione  e la pace che ne deriva  prendono il posto dell’angoscia di sopravvivenza iniziale. Ma il volo, primitivo unico mezzo permesso all’uomo per superare le enormi asperità di una terra nemica e troppo ciclopica  per le fragili capacità umane, continua a  caratterizzare la pittura di Ridolfi fino alla fine,  per aiutare l’uomo a godere di questa terra infinita, sconfinata ora  nella sua pacatezza e sollievo allo spirito umano. Dopo tante opere caratterizzate da questa serenità descrittiva,  accadde però nel settembre 1983 che il ritorno imperioso del male,che sembrava debellato un anno prima, fece sì che negli ultimi quadri, dipinti quando il senso della vita lasciava il posto a quello della morte ormai imminente, l’artista tornò a raffigurare la natura ostile e nuovamente distruttiva nei confronti delle opere terrene dell’uomo. Il vulcano (ultimo suo dipinto), reso dall’artista pauroso e distruttivo, compresso dal bordo della rigida tela nel vomitare ceneri e lapilli, è percorso da rivi di lava che richiamano il sangue che solca la fronte del Cristo sofferente e morente sulla croce (“Ultimi spasimi” dipinto nel 1966) e non è affatto dissimile da quello” sterminator Vesuvio”che caratterizza guarda caso l’ultima opera del Leopardi (dal titolo “La Ginestra o fiore del deserto)”, dove una forza primordiale distruttiva riazzera il progresso umano ..e  a cui solo la natura, proprio attraverso l’umile ginestra, saprà sopravvivere ricominciando un ciclo diverso, ma nuovamente vitale per la nostra terra,al di là del piccolo uomo.                                                 

                                                                                                                                                        Filippo Ridolfi

“…Non temiamo smentita se affermiamo che si tratta, per averlo pienamente dimostrato, di un artista dei più prestigiosi fra quanti onorano oggi l’Italia, e la nostra fondata convinzione ci porta, con la certezza di suscitare larga e generale eco,-per una piena conclamazione- ad affermare che presso la pubblica opinione abbia diritto al posto di vero e proprio “Artista dell’anno”.

                                      Paolo Marzano 1983

Non c’è frammentarietà nel discorso che Virginio Ridolfi di Pesaro viene narrando con la sua cromatica personale ed autentica, rivelatrice di uno stato d’animo che gli è proprio: la sincerità espressiva si evidenzia nella sensibilità con cui viene preparata la tavolozza, ricchissima di toni e realizzata magistralmente nei paesaggi e nelle sfumature.

La scelta vara tonalità fredde, che il pittore riesce però, ed è questa la sua caratteristica, a vivificare emozionalmente e coloristicamente.

Nei suoi paesaggi montani, ben poco spazio è lasciato al cielo, una striscia di orizzonte dove indugiano, quasi un preludio, pennellate di azzurro; poi la sinfonia si anima in un accostamento di verdi, di terre di Siena, di ocre così sapientemente usati da dare vita e corposità a quei monti, ben delineati nel loro impianto disegnativo, che gradualmente si colorano di riflessi e trasparenze indefinibili, per schiarirsi poi verso il fondo dell’orizzonte.

Laghi, torrenti e cascate alpestri dove i bianchi della spuma dell’acqua, così mossi e vaporosi, ricordano la pennellata del Cèzanne e dove l’azzurro s’intravede a tratti, non come un gioco di alternanze coloristiche, ma come realtà che preesiste.

Il rivo d’acqua tra i dirupi montani non si sa se è vissuto o sognato: c’è un’atmosfera incantata nel graduale passaggio di tono che va dai chiari ancora corposi, dal verde, dal marrone,dal giallo a un grigio perlaceo, dove la fantasmagoria dello sfondo è gioco d’ombre e vive una sua autonomia essendo altra cosa dal cielo; dove Ridolfi inventa un altro tempo per le sue aurore, la cui luminosità sembra scaturire da un punto, e scendere vellutatamente ad avvolgere di luce la nuda roccia della crosta terrestre,dando vita ai calanchi, dalle arcane trasparenze,creando ombre profonde che si insinuano nei crepacci, scavandoli per iniettarvi, si direbbe, una commozione di tipo romantico.

Ed è questo forse il punto di arrivo, se poi nei dipinti vediamo quelle composizioni architettoniche e sintetiche nell’insieme, come sono attente e precise nel particolare, cristallizzarsi quasi nel bagno di un’immobile luce.

La fedeltà alla natura si tinge di un’aura di magica sospensione, e di colpo ci troviamo sul filo che divide il naturalismo dalla pittura metafisica.

                                                                                                                            Gian Mario  Olivieri

VIRGINIO RIDOLFI (Fano, 1922-1983), PITTORE DELL'INFINITO

Si è tenuta a Fano nella sala S. Michele, tra dicembre 2013 e gennaio 2014, una mostra retrospettiva di Virginio Ridolfi, patrocinata dalla Fondazione Cassa di Risparmio e organizzata dal dott. Filippo Ridolfi, figlio dell’artista e davvero infaticabile nel rendere omaggio a suo padre, morto appena sessantunenne a Fano nel 1983.
Da quella data, i figli hanno organizzato antologiche in varie città delle Marche, tra le quali cito almeno Montefelcino, Fano (alla Rocca Malatestiana nel 1993 e a S. Michele nel 2013-14), Recanati. Personaggio multiforme, dinamico, allevatore di cani da caccia, aveva frequentato la Scuola d’arte Apolloni di Fano come alunno vivace e capace.
Si era diplomato maestro d’arte con Emilio Lazzaro e con Fabio Tombari, col quale ha sempre continuato rapporti di scambi e di amicizia. La passione per la pittura è stata per lui totalizzante, ha lavorato instancabilmente, i suoi quadri numerosissimi hanno suscitato l’interesse della critica in varie città d’Italia e d’Europa, con premi e riconoscimenti ripetuti.
Nella primavera 2001 ero stata invitata a presentare una mostra di Ridolfi presso il Centro Nazionale Studi Leopardiani di Recanati, quando era sindaco l’on. Franco Foschi, indimenticabile e rimpianto protagonista anche dell’Associazione “Le cento città”. Il rapporto letterario, ripreso anche nel depliant di mostra, nasceva tra le immagini di Ridolfi e alcuni versi di Giacomo Leopardi, con L’infinito, La quiete dopo la tempesta, Il passero solitario.
Ricordo bene la reazione del pubblico all’accostamento di quelle parole con i grandi quadri del pittore, con quei suoi ossessivi calanchi stesi con potenza terribile, in uno spazio illimitato. Scrivevo allora: “Impasti di colore denso, stesi con pennellate invisibili o plasmate con le dita, sono animati da luce da mutamenti di luce pura, implacabile, cristallina, fino alle montagne estreme sull’orizzonte. Terra, terra all’infinito,con ferite arcaiche, sedimenti, grumi: non fecondata dalla vegetazione , spoglia ma non arida, ricca della sua vitalissima forza plastica. Come mappe preistoriche su mari o laghi o cascate altrettanto poderosi.
Ma dalla lontananza geologica al sentimento del presente il passo è brevissimo: bastano piccoli uomini, cani, gabbiani, barche, fagiani. Allora entra la vita, dal fatidico 1973, nelle immani visioni di Virginio Ridolfi, e se c’è un sentore di tempesta nel cielo, senti che s’allontana, o se è sereno, avverti una luce sempre più trasparente e lieve, quasi dissolta nel chiarore delle distanze. Sono spazi infiniti coi quali i piccoli uomini coesistono, dominati ma non sopraffatti. Via via il sentimento dominante è insomma la “contemplazione” dell’immensità della natura, e di questo coesistere nostro con lei.
Memorie del grande romanticismo tedesco – alla Caspar David Friedrich – si attenuano in una tensione meno vertiginosa, meno allucinata, tutto sommato più classica e controllata dalla ragione. (….) Un primordiale bisogno di esaltare la vita, con sapienza pittorica istintiva, talvolta anche un po’ ingenua: ma tesa ad evocare stagioni esasperate o luoghi di piccole città, nell’enormità dello spazio e del tempo da scandire col “suono dell’ora”. L’infinito ameno delle docili colline di Recanati si è spostato più a nord, nella pittura di Ridolfi, e si è immerso in territori selvaggi tra terre e acque.
Poi alla fine, nell’ultima opera, è sprofondato nella forza terribile di un vulcano che butta fuori fuoco, come quel Vesuvio alla cui lava ha resistito, fiore pieghevole eppure tenace, solo la memorabile Ginestra. Alla fine: per Virginio Ridolfi, nel dicembre 1983. Riproporre oggi queste immagini e parole significa ripercorrere un circuito di memorie, tra Recanati e Fano, incastonate anche in lontani percorsi di questa associazione e della nostra rivista.

GRAZIA CALEGARI

Per una lettura di queste opere, con un’introduzione libera che si rifà a Peris Persi nella presentazione del libro ”Il parco letterario” ..che contiene la poesia di Fabio Tombari “Terra del Montefeltro” che il poeta fanese donò a Virginio Ridolfi come omaggio ai suoi “Calanchi”.
“E’ quasi un inno o forse una invocazione ma anche una mirabile presentazione di una terra tormentata dalla natura.
E’ sicuramente capitato a tanti di tornare in terre legate a vissuti personali più o meno remoti, e di scoprire qualcosa che supera le forme di un paesaggio a noi caro…qualcosa che si stacca dalla nostra razionalità mossa da intenti e velleità scientifiche; è quanto raggiunge direttamente il nostro animo…ci tocca e penetra nell’intimo e pertanto ci coinvolge come persone, e di fronte a ciò, come sgomento, sentiamo di non avere scampo perché è profondo il fascino che ci pervade e dolcemente ci fa naufragare in quel mare di leopardiana memoria…
Pertanto i luoghi possiedono valenze arcane, si caricano di misteriose presenze e motivazioni e la folla di messaggi e simboli che emergono da tali luoghi diviene il suo vero patrimonio, la sua identità, la sua ricchezza… Può essere relativamente facile leggere un territorio o un paesaggio, ma è indubbiamente più difficile coglierne l’anima, le ragioni misteriose che stimolano la nostra sensibilità e ci fanno divenire un tutt’uno con esso, rasserenati con noi stessi, con la natura e con gli altri.
Gli artisti sono i privilegiati che trovano più agevolmente l’ispirazione e hanno la capacità di trasmettere agli altri il frutto delle loro sensazioni e intuizioni.
Quindi quale modo migliore per accostarsi a un territorio di quello dell’artista che ne ha colto l’essenza ed è riuscito a comunicare le sue emozioni fino a farle rivivere negli altri.”
Virginio Ridolfi “ Tu crei il tuo mondo”, così gli cantava il poeta siciliano Gerardo Sangiorgio, perché questi paesaggi di terre brulle, aspre, deserte che costituiscono i Calanchi e che noi possiamo talora solo contemplare da lontano fermando la nostra auto sul ciglio della strada, lui, esperto dresseur di cani da gare classiche di cerca su selvaggina, li viveva direttamente con i suoi fedeli cani con cui sudava, condivideva la fatica e le gratificazioni e ..alla fine della giornata, tornava a casa stanco ma con un carico di emozioni ogni giorno diverse ma sempre intense: aveva provato gioia, soddisfazioni, oppure rabbia, paura.. e la tela e i colori di notte rappresentavano più delle parole il modo migliore per esternare quelle forti emozioni e imprimerle sulla tela, ossia in uno strumento duraturo nel tempo per farle rivivere a chi osservava, osserva e osserverà le sue opere che nascevano di getto, senza preparazioni o schizzi.. una tela bianca su cui il colore diveniva lo strumento per plasmare questi vissuti interiori, che ancora oggi riusciamo a condividere con l’artista.
Anche questa mostra nel Castello di Frontone quindi, in un luogo così suggestivo e a lui caro.. dopo 35 anni dalla sua prematura morte, ci fa godere di sensazioni ancestrali che ci fan capire che la natura è sempre lì, forte di fronte alla piccolezza dell’uomo che si crede padrone di questa terra...ma basta qualche scossone di questa per riportarlo alla cruda realtà e uscire dal suo delirio di grandezza.
Sono opere non descrittive; ci fanno sentire di essere dentro a queste terre che si spalancano improvvise provocandoci timore, angoscia, senso di smarrimento... ma laggiù all’orizzonte poi vediamo una tenera e rasserenante luce.. e ci dà un senso di profonda pace. Raggiungerla … non è semplice, bisogna fare e indovinare un percorso enigmatico che ci porti là in salvo, e non finire dentro un crepaccio da dove sarebbe difficile uscire; è sempre la metafora della vita umana che Virginio Ridolfi ripropone nel suo lavoro, e la sua primitività di uomo sempre a contatto con la madre natura, trasportata nei suoi quadri, ci permette di provare ancora quelle emozioni arcaiche che la quotidianità della nostra vita odierna ci rende difficile sperimentare.
La potenza della natura è incontenibile per il piccolo uomo ombra che compare nelle opere di Virginio Ridolfi… un’ombra che non incide su queste terre che si animano, si muovono, si aprono sotto il nostro sguardo... L’”Infinito” di Leopardi e Ridolfi, già accomunati in una Mostra del pittore fanese nel Museo del Leopardi a Recanati nel 2001, ovvero due figli della nostra regione che in epoche diverse e con strumenti diversi hanno cantato tematiche simili mirando a sottolineare l’effimeratezza dell’uomo e il rispetto che deve avere per la madre terra da cui origina e che deve essere amata e ..temuta.

Cenni per comprendere meglio l’opera del pittore Virginio Ridolfi (1922-1983).
Diplomatosi alla Scuola d’Arte “Apolloni” di Fano, allievo di Ermilio Lazzaro e di Fabio Tombari,di cui rimase amico fino alla morte e da questi insignito della prestigiosa “cittadinanza di Frusaglia”.Scoppiata la seconda guerra mondiale, amante del volo e dell’avventura, partì volontario nei paracadutisti della Folgore.; terminata la guerra si sposò e dopo qualche anno riprese a dipingere. La sua vita artistica può essere così facilmente schematizzata:
I° Periodo (1963-1973): dipinse alcuni acquerelli nella sua Fossombrone. poi si trasferì a Fano e iniziò a dipingere ad olio su compensato, cartoncino telato, e infine su tela, dapprima a spatola, poi a pennello.
I soggetti dei dipinti erano i più vari e i colori, visto anche il periodo storico, vivaci e molto scenografici; barche a riva, mareggiate, cani, paesaggi, fiori… sovrastati da cieli striati fantastici e tutti ricchi di forza cromatica. Ricevette tanti riconoscimenti nelle mostre collettive a cui partecipò in Italia e all’estero e vennero allestite varie mostre personali in gallerie italiane. Fu uno dei rappresentanti della pittura italiana a Nizza e Dubrovnik e a Roma sue le opere che presso i Saloni “Cristian Gian”, fecero da sfondo alla sfilata di moda in cui venne per la prima volta mostrato al pubblico il clergyman (abito che sostituì l’abito talare)..Venne nominato Presidente della Centro Europeo della Diffusione della Cultura di Bruxelles per le Regioni Marche e Umbria. Nel 1973 fu scelto da una giuria di critici d’arte (con altri tre pittori italiani) per esporre in modo sperimentale di fronte al grosso pubblico in uno stand della Fiera campionaria di Bologna che allora si chiamava “Giò ‘70”.
Questo evento costituì un momento storico per la vita artistica di Virginio Ridolfi. Per allestire il suo stand decise infatti di fare un “Omaggio all’Appennino”; cominciò allora a dipingere i “Calanchi “(terre argillose che franano e mutano con le varie interperie..)..cambiò la sua firma nelle opere (prima era in stampatello e divenne quindi in corsivo) ed ebbe così inizio il :
II° Periodo (1973-1983, anno della morte).
Da allora dipinse solo oli su tela anche di grandi dimensioni (come quella richiestagli nel 1976 dall’allora sindaco di Roma Giulio Carlo Argan, per la Quadriennale romana) e la terra brulla, arida, primitiva, bellissima ma inospitale per l’uomo e il mare con le sue mareggiate, la sua forza distruttiva sulle scogliere divennero i temi- strumento dipingendo i quali in modo istintivo sulla tela bianca, senza disegno o schizzo alcuno, amalgamando i colori distribuendoli sulla tela col pennello, o con la spatola o addirittura con le dita a mostrare meglio le lacerazioni degli sconvolgimenti terreni arcaici (ma sempre attuali), simboleggiò i suoi sentimenti interiori profondi di angosce, paure, serenità, romanticismo, piacere dell’osservazione della natura.... Queste opere uniche nel loro genere, che richiamano tanto i sentimenti del Leopardi (.. solitudine, piccolezza dell’uomo, grandezza della natura, senso dell’infinito.) non a caso sono state utilizzate nel 2001 nel Museo del Leopardi a Recanati dall’allora Direttore del Centro Mondiale della Cultura on. Franco Foschi per una mostra in occasione della visita del Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro.
Piero Cesanelli al termine della sua visita all’ultima mostra tenuta a Fano nel gennaio 2014…ha scritto: “Virginio Ridolfi è pittore capace di provocare nel visitatore grandi suggestioni.. da Cime Tempestose ad Avatar.”
Infine il destino ha voluto che nel 1983, anno della prematura morte avvenuta all’età di 60 anni, il critico d’arte Paolo Marzano in una rivista specializzata aveva nominato Virginio Ridolfi..”Artista dell’anno”.